La medicina di genere

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Quanto sono significative le differenze fra uomo e donna? In occasione della giornata internazionale dei diritti della donna abbiamo deciso di presentarvi e approfondire il tema della Medicina di Genere (MdG), nel tentativo di dare una risposta a questa domanda.
Da più di un secolo l’8 marzo è considerato il giorno per celebrare la rivendicazione dei diritti delle donne, nonché promuovere la parità di genere. Ma, a ben vedere, il concetto di parità reca con sé un necessario corollario: per garantire equità di trattamento, è fondamentale considerare le differenze, dando così valore al singolo, al fine di favorire il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 Costituzione). Questo è esattamente ciò di cui la medicina di genere si occupa, essa mira a studiare l’impatto del “sesso biologico” e del “genere” sulla fisiologia e la fisiopatologia, analizzando come essi possano incidere sulla sintomatologia, la diagnosi e la cura delle malattie, con l’obiettivo di migliorare l’appropriatezza dei trattamenti per ognuno. Essa abbraccia pertanto sia le differenze biologiche fra i sessi che i fattori di natura socio-culturali capaci di incidere sulla salute.

La medicina di genere non è quindi una branca della medicina che si occupa della salute della donna, ma è un nuovo approccio e una nuova modalità di praticarla e studiarla. Ciononostante è proprio la donna a trarne i maggiori benefici: da sempre infatti la medicina ha adottato una prospettiva tipicamente androcentrica. Cosa significa? In parole semplici, la medicina ha abitualmente considerato la donna come “un piccolo uomo”, uguale in tutto e per tutto alla versione maschile, eccezion fatta per i soli aspetti correlati all’apparato riproduttivo (cosiddetta “Bikini Medicine”). Questo ha comportato la quasi totale esclusione delle donne dagli studi condotti in ambito clinico e farmacologico: secondo la dichiarazione del CNR (giugno 2018) sulle differenze di genere nella ricerca farmacologica, in ambito neurologico solo il 35% dei trial clinici include soggetti femminili, che sono comunque rappresentati in misura non superiore ad 1/3. Inoltre, tale situazione coinvolge anche la fase di sperimentazione a livello animale, dove le percentuali si riducono ulteriormente, arrivando al 10%. Nonostante il corpo femminile sia più difficile da studiare perché non presenta la stabilità che si riscontra invece in quello maschile – differenze dovute agli eventi di natura ormonale che interessano la donna durante l’intera vita – una sua maggiore inclusione negli studi clinici è più che auspicabile. Tale situazione risulta infatti lesiva per il genere femminile in quanto si presume che gli studi condotti su soggetti maschili siano applicabili tout court anche alle donne, sottoponendole invece a notevoli rischi per la salute poiché i farmaci prodotti e calibrati sull’uomo possono arrivare persino ad essere nocivi sul corpo femminile.  
Fortunatamente, da qualche decennio, una maggiore attenzione alle differenze di genere è stata via via estesa a tutte le specialità mediche. Il merito di questo va alla dott.sa Healy, prima donna direttrice dell’Istituto Nazionale della Salute negli Stati Uniti, che nel 1991 scrisse un celebre editoriale intitolato “The Yentl Sindrome”. In poco più di una pagina la Healy denunciava le discriminazioni a cui assisteva – largamente diffuse nel ramo della cardiologia – nei confronti delle donne, le quali risultavano meno ospedalizzate, meno sottoposte ad indagini diagnostiche e ad interventi terapeutici e cure rispetto agli uomini; fattori che contribuivano all’alto numero di morti femminili per infarto.

Non tutti infatti sapevano – e tuttora sono a conoscenza del fatto – che il sesso biologico incide in maniera estremamente rilevante sulla salute umana e il presentarsi delle differenti patologie: caso emblematico sono appunto le malattie cardiovascolari, da sempre ritenute problematica per lo più maschile ma che in realtà costituiscono la prima causa di morte femminile a livello mondiale. A tal proposito, la Società Americana di Cardiologia ha dimostrato che i fattori di rischio modificabili (ipertensione, fumo, obesità, diabete) pur essendo i medesimi per entrambi i sessi, hanno maggiore impatto – a livello di mortalità e morbilità – sulle donne rispetto agli uomini: ad esempio, le donne fumatrici hanno una probabilità 3 volte maggiore di rischiare un infarto rispetto all’uomo fumatore; a parità di compenso glicemico, nelle donne diabetiche il rischio è aumentato del 44% rispetto alle persone di sesso maschile. Innalzano ulteriormente il rischio peculiarità tipicamente femminili dettate dagli eventi di natura ormonale quali gravidanza, menopausa e trattamento contraccettivo. Di estrema rilevanza – e ancora troppo spesso sottovalutata – è la diversa sintomatologia. Mentre negli uomini l’infarto si manifesta con dolore al petto, sua diffusione al braccio sinistro e senso di costrizione; per la donna i sintomi sono del tutto differenti: si verifica frequentemente infatti l’insorgere di mal di schiena, nausea/vomito, dispnea, debolezza e dolore alla mandibola. Inoltre, mentre negli uomini le lesioni si verificano a livello delle grandi coronarie, le donne hanno invece coronarie di misura più piccola e meno visibili tramite gli strumenti di diagnostica progettati per analizzare e visitare il corpo dell’uomo. La stessa diagnosi, a causa di tali differenze, può essere mancata.
L’ambito cardiovascolare non è però l’unico terreno in cui i due sessi divergono. Notevoli differenze si riscontrano anche in ambito oncologico, dove sono gli uomini invece a correre un maggior rischio di mortalità; ugualmente nel caso di osteoporosi: le donne sono maggiormente colpite, ma gli uomini riportano una maggiore difficoltà di recupero dopo la frattura del femore, con il doppio delle possibilità di morirne. Al contrario, i soggetti di sesso femminile sono maggiormente sottoposti al rischio di incorrere in depressione, Alzheimer, malattie polmonari e allergiche

Oltre alle peculiarità di natura strettamente biologica e fisiologica, la costruzione sociale del genere impatta notevolmente lo sviluppo delle patologie. Questo è particolarmente visibile nell’ambito lavorativo: i report dell’INAIL nel quinquennio 2014-2018 indicano che le denunce per infortunio professionale sono presentate per circa 1/3 da donne – impiegate meno degli uomini in mansioni di manovalanza – e per la restante percentuale da soli uomini. Per quanto concerne il sesso femminile, la tipologia di malattie denunciate è ascrivibile alla sfera dei disturbi allergici, dell’apparato muscolo-scheletrico e delle sindromi post-traumatiche da stress. Negli uomini sono invece più frequenti le ipoacusie da rumore, danni di natura traumatica e le patologie tumorali dell’apparato respiratorio. Le donne “eccellono” invece negli infortuni in itinere (tragitto dall’abitazione al luogo di lavoro, o altri luoghi); conseguenza riconducibile al fatto che spesso siano loro ad occuparsi di casa, bambini ed anziani; ricorrendo a maggiori spostamenti e minori ore di sonno. Lo stress a cui sono sottoposte – causato dalla necessità di far combaciare le esigenze lavorative con il loro ruolo di principali care-givers in famiglia – è anche uno dei fattori causa di sindromi ansioso-depressive.

Da ultimo, occorre considerare l’ulteriore ostacolo dei dispositivi di sicurezza e protezione individuale, calibrati e progettati per l’uomo medio (peso 70 kg; altezza 1,75 m circa). Anche in questo ambito sono le donne ad essere penalizzate: elmetti, guanti, scarpe, maschere, giubbotti anti-proiettile…ecc risultano essere scomodi, sproporzionati o addirittura dannosi per il sesso femminile in ambito lavorativo. Purtroppo tali problematiche si riscontrano anche nella vita di tutti i giorni e ne sono un esempio le mascherine troppo larghe e le cinture di sicurezza dell’auto. Queste ultime non sono idonee a proteggere le donne in gravidanza e – secondo una Consumer Reports examination statunitense del 2019 – nonostante i soggetti femminili siano meno coinvolti in incidenti automobilistici rispetto agli uomini, hanno il 17% in più di probabilità di morirne e il 73% di esserne feriti.

Tutti questi fattori contribuiscono a creare il cosiddetto “Paradosso donna” per cui, nonostante le donne siano più longeve degli uomini di 4 anni, il tempo guadagnato è in realtà tempo di malattia. Risultano infatti essere le principali utilizzatrici del Sistema Sanitario Nazionale e consumatrici di farmaci per cui godono però di minori garanzie in termini di efficacia, tollerabilità e sicurezza; inoltre il multitasking e il ruolo di caregiver (per lo più non retribuito) incidono negativamente sulla loro salute psicofisica.
La medicina di genere sembra pertanto la soluzione più brillante, la più adatta a tutelare la salute di ogni individuo, prestando la giusta cura e attenzione alle peculiarità di ognuno. Nonostante gli ostacoli siano ancora svariati e ci sia ancora molta strada da percorrere, gli sforzi per una maggior valorizzazione del genere nella ricerca e nella pratica medica stanno iniziando a dare i loro frutti. A livello europeo ed internazionale diverse sono le iniziative per promuovere un tale approccio, si ricorda a tal proposito l’obiettivo numero 5 – parità di genere – dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, da noi trattato nella Rubrica del weekend del 13 febbraio 2021. Tuttavia, i migliori risultati possono essere raggiunti perlopiù a livello nazionale, dove le disposizioni normative e legislative hanno maggiore incidenza e vincolatività. A tal proposito, merita menzione il recente “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere”, approvato nel giugno 2019 in attuazione dell’art 3 della legge 3/2018. Grazie ad esso, viene finalmente introdotto per la prima volta in Italia il concetto di genere nella medicina e viene predisposta un’articolata strategia di promozione riassumibile nei seguenti punti:
1) Attuazione di percorsi clinici di prevenzione, diagnosi e cura specializzati;
2) ricerca, innovazione e sperimentazione incentrata sul genere;
3) formazione e aggiornamento del personale medico e degli studenti;
4) comunicazione e informazione alla cittadinanza. 
Nell’attesa di ricevere presto notizie sull’efficacia di tali disposizioni, vi lasciamo con un’intuizione del lungimirante medico Ippocrate, che già nel 415 a.C. era riuscito ad indagare la natura dell’uomo e comprendere qualcosa a noi sfuggito per troppo tempo:

“è più importante sapere che tipo di persona ha una malattia piuttosto che sapere quale tipo di malattia ha una persona”

FONTI:

M. J. Legato (2017), Gender-specific medicine: an idea that should have been intuitive but which required the efforts of an international community to establish, in M. J. Legato, M. Glezerman (a cura di), The International Society for Gender Medicine, London,1.

Sito della Fondazione Onda – Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere:
https://ondaosservatorio.it/focus/salute-della-donna-e-di-genere/medicina-di-genere/
https://ondaosservatorio.it/it/progetto/conosci-la-medicina-di-genere/

Fondazione Onda – osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere (2019), Dalla medicina di genere alla medicina di precisione. Percorsi evolutivi e sinergie di competenze (libro bianco 2019), Milano, Franco Angeli.

CNR – Commissione per l’etica della ricerca e della Bioetica (2018), Dichiarazione della Commissione per l’etica della ricerca e della Bioetica del CNR sulle differenze di genere nella ricerca farmacologica (https://www.cnr.it/sites/default/files/public/media/doc_istituzionali/ethics/CNR-Ethics-Differenze-di-genere-e-ricerca-farmacologica-giugno-2018.pdf)

C. Criado Perez (2019), Invisible women: exposing data bias in a world designed for men, Abrams Press, New York. 

A. D. Lahav (2021), Medicine is made for men, in The New York Review, issue February 11.

Credits: Photo by https://www.rnz.co.nz/national/programmes/thiswayup/audio/201861433/sex-medicine-treating-men-and-women-differently

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