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La povertà, figlia dell’epoca moderna

Tempo di lettura: 6 minuti

La teoria della dipendenza di Frank

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La settimana scorsa abbiamo visto nel dettaglio la cosiddetta teoria degli stadi di Walt Whitman Rostow, secondo la quale lo sviluppo socio-economico di un paese passa necessariamente attraverso cinque stadi essenziali, dalla società tradizionale autosufficiente e chiusa fino al capitalismo successivo alla rivoluzione industriale, dove il divario tra la maggior parte della popolazione, che può accedere senza difficoltà anche a beni non essenziali, e chi è rimasto ai primi stadi diventa stridente. Abbiamo concluso dicendo che chi è rimasto indietro non lo fa ha fatto quasi mai per propria scelta… 

A tal riguardo, la seconda teoria che vogliamo analizzare insieme parte proprio dall’osservazione del sottosviluppo che affligge alcune aree del mondo in contrapposizione al rapido sviluppo di altre, ed è stata formulata tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta da un gruppo di scienziati sociali sudamericani, tra cui spicca Andre Gunder Frank e il suo libro “Lo sviluppo del sottosviluppo” in cui discute la cosiddetta teoria della dipendenza. Questa si basa sulla convinzione che il sottosviluppo derivi da una distribuzione tutt’altro che equa delle risorse e dallo sfruttamento dei paesi meno sviluppati da parte dei più sviluppati. 

Si tratta di un fenomeno che trovò il suo impulso con la scoperta dell’America e con l’intensificarsi delle rotte marittime che partivano dall’Europa per raggiungere ogni parte del mondo fin dal XVI secolo. Da allora, e fino all’epoca moderna, si instaurò un sistema capitalista mondiale, nel quale i paesi dell’Europa, fin dall’inizio economicamente e militarmente superiori alle popolazioni del resto del mondo, recitarono un ruolo di sfruttatori delle cosiddette “nazioni satellite” meno sviluppate sparse per il globo. Le potenze dell’Occidente iniziarono ad accumulare risorse enormi importandole dalle regioni colonizzate, rendendole indigenti. La teoria, portata al limite, sostiene anche che in questo sistema fortemente sbilanciato, le nazioni più potenti abbiano l’interesse a sfavorire lo sviluppo dei paesi satellite, di modo che questi, spinti dalla situazione precaria – se non disperata – in cui versano, siano disposti a vendere materie prime e fornire manodopera a prezzi bassissimi. 

Il colonialismo e l’imperialismo resero di fatto i paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia nient’altro che le miniere di ricchezza delle potenze europee: in alcuni paesi, questo si è tradotto letteralmente nell’estrazione di metalli preziosi come oro e argento ma anche di materie prime fondamentali per la rapida crescita economica dell’Occidente, come accaduto al tempo della rivoluzione industriale con l’estrazione di gomma nelle colonie africane del Belgio e con il petrolio dell’attuale Arabia Saudita sfruttato dal Regno Unito. Nei territori che non disponevano di abbondanti materie prime, vennero invece imposte coltivazioni specializzate, come avvenne per le banane e la canna da zucchero nei Caraibi, il cacao nell’Africa occidentale, il caffè nell’Africa orientale, il tè e le spezie in India ed Indonesia. In questo modo le popolazioni locali, che fino ad allora avevano vissuto in modo autosufficiente producendo autonomamente la diversità di prodotti necessari per il proprio sostentamento, in un sistema economico magari arretrato ma piuttosto equilibrato e funzionante, si ritrovarono costrette a convertire in massa la propria produzione agricola varia nella coltivazione intensiva ed estensiva di un unico prodotto che ben si adattasse al clima e al suolo locale; il lavoro organizzato gestito più o meno direttamente dai coloni aveva il vantaggio di far accedere la popolazione locale al lavoro retribuito, seppur in modo molto contenuto e in contesti di sfruttamento accanito, permettendo un lievissimo incremento della ricchezza. Con il denaro guadagnato la popolazione poteva così acquistare il cibo e i beni che non era più possibile ottenere dal sistema autosufficiente preesistente, ormai stroncato, ricorrendo all’importazione diretta dai coloni, generando così un flusso aggiuntivo di ricchezza di ritorno agli stessi. Si capisce subito che, così facendo, i coloni potevano dare alle popolazioni sfruttate l’impressione di guadagnare ricchezza, mentre di fatto il denaro circolante finiva per tornare sempre in Occidente. 

Tutti questi flussi di risorse materiali e monetarie provenienti dalle colonie costituirono i fondi necessari per dare il via alla rivoluzione industriale, che permise ai paesi europei di iniziare a produrre beni di valore superiore e aumentare ancor più il divario con le regioni colonizzate. Ancora una volta, i prodotti fabbricati a minor prezzo attraverso i processi industrializzati, poterono farsi facilmente strada tanto nei paesi sviluppati quanto in quelli più arretrati, stroncando le manifatture che ancora resistevano come forma di produzione, consumo e generazione di reddito locale. Anche con l’avvento delle indipendenze degli stati colonizzati, sebbene i paesi dell’Occidente non fossero più in diretto controllo politico ed economico di quelli assoggettati, il freno allo sviluppo di questi ultimi permase, sotto la forma del cosiddetto neocolonialismo. Innanzitutto, le materie prime che i paesi più arretrati potevano vendere acquisivano comunque gran parte del loro valore (e del prezzo di vendita finale) attraverso le lavorazioni che subivano nei paesi occidentali; le multinazionali poi, potendo spostare facilmente la produzione, diedero luogo ad una corsa al ribasso dei paesi più arretrati per fornire manodopera al minor prezzo e attirare le aziende, che non avevano certo l’obiettivo successivo di aiutare lo sviluppo locale; gli aiuti finanziari internazionali, infine, sono visti da Frank come un ulteriore metodo per tenere al guinzaglio i paesi meno sviluppati, ai quali si concedono generalmente prestiti accompagnati da condizioni favorevoli al creditore, come l’accesso libero ai mercati da parte delle società della propria nazione o regione. (Continua)

L’elenco delle fonti verrà pubblicato in coda all’ultimo articolo della serie “La povertà, figlia dell’epoca moderna”.

Crediti: Photo by Wynand Uys on Unsplash
Ohrigstad, South Africa
“Irrigated crops make an interesting mosaic”


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