La luna e i falò. Il mito del passato e la realtà. – Cesare Pavese
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere».
È un inizio che porta il lettore dritto dentro la storia, senza mediazioni: il narratore, una voce maschile, dice “io” ed è il protagonista della storia. Non dice mai il suo nome, solo il soprannome, “Anguilla”, ma più avanti, nel quarto capitolo. Dunque fin dalle prime righe il lettore sente la voce di questo personaggio che s’industria di dire dove si svolge la storia che sta per raccontare, e quando, e come vive la gente in questo luogo, questa piccola valle piemontese, e negli altri luoghi dov’è stato, in particolare in America, ma non quella del sogno americano, piuttosto quella del lato B, del “lato oscuro”, come avrebbe detto molti anni dopo il personaggio di un film (americano) di enorme successo. E già fin dalle prime righe il narratore crudamente, senza giri di parole, vuole che il lettore sappia la sua condizione di “bastardo”, cioè di “estraneo”, di “senza radici” che proprio per questo le cerca con ostinazione, idealizzando il proprio passato, attribuendogli un valore che non ha.
Ma andiamo con ordine.
Dove e quando
Qui, nella prima frase, il testo dà al lettore un’indicazione sul luogo in cui la storia si svolge: non a Canelli, non a Barbaresco, non in Alba, ma “qui”, cioè, come è detto poche righe dopo, sulla collina di Gaminella e nella valle del Belbo: l’acqua del fiume passa davanti alla chiesa di Santo Stafano Belbo «mezz’ora prima» che davanti a Gaminella. Voltando le spalle a Gaminella, al di là del fiume c’è la collina del Salto con la falegnameria di Nuto, e la «grassa piana», dove sta la cascina della Mora, e infine più su nella valle c’è Cossano, dove sono stati costretti ad andare Padrino e le sue figlie, la famiglia adottiva di Anguilla.
Tutto si svolge qui, in definitiva tra il paese vero e proprio e le due colline, Gaminella e il Salto. In pochi giorni, durante il ferragosto del 1947 o 1948. Che sia ferragosto lo dice il narratore: «Quest’estate sono sceso all’albergo dell’Angelo, sulla piazza del paese (…) Ero venuto per riposarmi un quindici giorni e càpito che è la Madonna d’agosto». Che sia più probabilmente il 1948 lo si deduce dalla polemica contro i partigiani che è molto violenta in quei giorni in paese, e che storicamente caratterizzò la campagna elettorale di quell’anno, conclusasi nel mese di aprile. Le colline restituiscono i cadaveri dei morti durante la guerra partigiana di pochi anni prima, dal settembre 1943 all’aprile 1945. Accade che, lavorando un terreno, riemergono due cadaveri, due spie repubblichine probabilmente, ma irriconoscibili perché sono stati sottoterra tre anni. È l’occasione per riprendere i toni fascisti contro la guerra partigiana.
Cominciarono il dottore, il cassiere, i tre o quattro giovanotti sportivi che pigliavano il vermut al bar, a parlare scandalizzati, a chiedersi quanti poveri italiani che avevano fatto il loro dovere fossero stati assassinati barbaramente dai rossi. Perché, dicevano a bassa voce in piazza, sono i rossi che sparano nella nuca senza processo. Poi passò la maestra – una donnetta con gli occhiali, ch’era sorella del segretario e padrona di vigne – e si mise a gridare ch’era disposta a andarci lei nelle rive a cercare altri morti, tutti i morti, a dissotterrare con la zappa tanti poveri ragazzi, se questo fosse bastato per far chiudere in galera, magari per far impiccare, qualche carogna comunista, quel Valerio, quel Pajetta, quel segretario di Canelli.(…) Me ne andai che la maestra gridava: – Sono tutti bastardi – e diceva: – È i nostri soldi che vogliono. La terra e i soldi come in Russia. E chi protesta farlo fuori. (cap. XII)
Il mondo contadino: poveri e…
La terra, i soldi. Nel racconto in effetti ha un ampio spazio la questione sociale in Italia negli anni appena successivi alla tragedia della guerra. In questo paese del basso Piemonte, un paese di contadini, non è cambiato molto: ci sono sempre contadini poverissimi come il Valino e la sua famiglia che ora vivono nel casotto di Gaminella, dove Anguilla è vissuto da bambino. Anguilla è un trovatello, nato negli anni Dieci, dice infatti : «Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già». “Dannati”, chiama questi contadini, perché poverissimi, magari proprietari di un pezzo di terra come Padrino, ma talmente poveri da non mangiare tutti i giorni. È avarizia della terra, è esiguità della famiglia che non può contare su molte braccia al lavoro, è impossibilità di crearsi delle riserve per sopportare le annate cattive. Infatti Padrino, prima perde la moglie Virgilia, poi una mala annata lo costringe a vendere il poco che ha, e se ne deve andare a servizio a Cossano, mentre le sue due figlie Giulia e Angiolina sono prese in un’altra famiglia. Per Anguilla non c’è posto a Cossano, ma il parroco fa in modo di collocarlo come servitore alla Mora. Anguilla, il bastardo, perde così anche la sua famiglia adottiva. È con un certo orgoglio che, tornato in paese molti anni dopo e discretamente benestante commenta: «Qui tutti hanno in mente che sono tornato per comprarmi una casa, e mi chiamano l’Americano, mi fanno vedere le figlie. Per uno che è partito senza nemmeno averci un nome, dovrebbe piacermi, e infatti mi piace» (cap.I).
Ma la cascina di Gaminella (talmente malandata che Anguilla la chiama sempre “il casotto” di Gaminella) è ora abitata da gente ancora più povera di Padrino e della sua famiglia. Non sono più proprietari, sono mezzadri. La terra continua a dare poco, ma loro devono dividere il raccolto con la proprietaria. La vita che conduce la famiglia del Valino è davvero miserabile. Il Valino è vedovo. Con lui ci sono una cognata e una donna molto vecchia, forse la madre, e l’ultimo rimasto dei suoi figli, Cinto. Gli altri sono morti in guerra. Cinto ha dieci anni, è zoppo, ha una qualche malformazione alle ossa. In quella casa, dice Nuto, avvengono cose brutte: «dalla piana del Belbo si sentivano le donne urlare quando il Valino si toglieva la cinghia e le frustava come bestie, e frustava anche Cinto – non era il vino, non ne avevano tanto, era la miseria, la rabbia di quella vita senza sfogo». La tragedia incombe su di loro e presto si materializza.
… e ricchi
Ma in questo racconto ci sono anche i contadini ricchi. Quando Anguilla lascia per forza di cose Gaminella entra come servitore alla Mora. Sono gli anni Venti. Il padrone è il sor Matteo un uomo che possiede molta terra, molta terra buona, nella “piana grassa”, ed capace di condurre la sua azienda agricola. È un uomo ricco. Può permettersi di accogliere Anguilla che in definitiva è ancora un ragazzetto e fa in modo che via via gli si insegni un mestiere. Avviene a poco a poco, lasciando al ragazzo il tempo di crescere, mentre finalmente mangia tutti i giorn! E la Mora è per Anguilla la vita, la sua emancipazione, la sua scuola. Anzitutto conosce Nuto che è sempre il contrappunto delle idee dei più. Nuto riflette, Nuto coltiva il suo pensiero in modo autonomo, Nuto è attento alla condizione degli altri, Nuto vorrebbe cambiare il mondo. È Nuto che fa capire ad Anguilla il valore dell’istruzione, l’importanza di avere un mestiere, l’attenzione verso i fatti degli altri.
ai tempi della Mora, del lavoro in cascina, lui che ha tre anni piú di me sapeva già fischiare e suonare la chitarra, era cercato e ascoltato, ragionava coi grandi, con noi ragazzi, strizzava l’occhio alle donne. Già allora gli andavo dietro e alle volte scappavo dai beni per correre con lui nella riva o dentro il Belbo, a caccia di nidi. Lui mi diceva come fare per essere rispettato alla Mora; poi la sera veniva in cortile a vegliare con noi della cascina. (cap. II)
E poi, a me Nuto piaceva perché andavamo d’accordo e mi trattava come un amico. Aveva già allora quegli occhi forati, da gatto, e quando aveva detto una cosa finiva: «Se sbaglio, correggimi». Fu cosí che cominciai a capire che non si parla solamente per parlare, per dire «ho fatto questo» «ho fatto quello» «ho mangiato e bevuto», ma si parla per farsi un’idea, per capire come va questo mondo. (cap. XVII)
Nasce così in Anguilla il desiderio di cose nuove, di una vita diversa, di un altro mondo: è la Mora che gli fa nascere questi pensieri. «La Mora era come il mondo. Era un’America, un porto di mare. Chi andava chi veniva, si lavorava e si parlava…» (cap.IX)
America. Lato B
La leva prima, e poi l’aspirazione a vivere in modo nuovo portano via Anguilla dal paese. Ed ecco Genova, la porta che immette nel mondo nuovo, cioè l’America, che Anguilla attraversa tutta Coast to Coast , da est a ovest, fino a quell’altro oceano, quando capisce che forse dovrebbe tornare.
Il viaggio americano è un viaggio nel sogno americano, quello degli uomini che si fanno da sé, che da fattorini di una banca ne diventano i proprietari, che da giovani intraprendenti vanno a Ovest, nel West, si battono contro la criminalità e diventano senatori, governatori di uno Stato. Ma non è il caso di Anguilla: il suo sogno presto diventa un incubo, non perché le cose gli vadano particolarmente male, ma perché osserva la realtà americana.
il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: «Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere». Era questo che faceva paura.(cap. III)
È un mondo in cui il successo è obbligatorio, si misura in denaro, debella la fame, ma spesso crea degli infelici, come racconta proprio in quegli anni Orson Wells in Citizen Kane e come hanno raccontato gli scrittori americani che Pavese traduceva negli anni Trenta.
il Mito del passato
Detto tutto questo, sembrerebbe che questo romanzo appartenga alla grande scuola del realismo europeo: l’attenzione per i luoghi, l’interesse per il modo di ragionare della gente, il contrappunto critico di Nuto, l’attenzione alle questioni sociali, alle disuguaglianze, ai problemi creati nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Ma non è questo il centro emotivo del romanzo.
Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto? Vedere dei carri, vedere dei fienili, vedere una bigoncia, una griglia, un fiore di cicoria, un fazzoletto a quadrettoni blu, una zucca da bere, un manico di zappa? (cap. X)
È dunque una ricerca di cose, e di persone, che non ci sono più. Una ricerca condotta da qualcuno che non ha radici, insiste sempre sulla sua condizione di “bastardo”, e vuole invece averne di radici, anzi, crede di averle dentro di sé anche se l’ha dimenticato per qualche tempo. È il mondo della luna e di falò come forze positive della natura, quello che Anguilla cerca con lo sguardo rivolto al passato. C’è un dialogo alla fine del nono capitolo tra Nuto e Anguilla. Quest’ultimo dice che il Valino crede nella forza dei falò, Nuto gli dà ragione. Anguilla lo schernisce, ma alla fine anche lui ne riconosce il valore.
non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto piú succoso, piú vivace.
– Allora credi anche nella luna?
– La luna, – disse Nuto, – bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.
Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo piú di saperla. (cap. IX)
Però il mondo cambia, e il passato è passato, e non c’è più. La ricerca nel passato, dà ad Anguilla la sensazione che qualcosa gli sfugge.
Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. (cap. I)
LA realtà DEL PASSATO
Cosa sfugge ad Anguilla? Man mano che s’inoltra nel passato, che Nuto gli racconta cosa è accaduto mentre era in America, Anguilla comprende che nemmeno il passato è esistito, è il suo ricordo a restituirgli un mondo di valori positivi. Ma quanto reali?
La Mora è il luogo cui Anguilla è più legato, è il luogo della sua educazione, sociale e sentimentale. È la Mora il centro emotivo del racconto. È il confronto doloroso tra il ricordo idealizzato che Anguilla ha della Mora e la realtà della vicenda del sor Matteo e delle sue figlie, Irene e Silvia, e Santina.
Il sor Matteo è per Anguilla il modello dell’uomo che sa governare se stesso, la sua famiglia, la sua proprietà. Del resto sia Padrino che Nuto e suo padre, uno che leggeva il giornale, avevano una buona opinione di lui. Non aveva mai lavorato la terra, perché erano stati suo nonno e suo padre a mettere insieme la terra e le cascine.
Ma ancora adesso il sor Matteo a un’occhiata sapeva dire quanti miria doveva fare una vigna, quanti sacchi quel campo, quanto concime ci voleva per quel prato. Quando il massaro gli portava i conti, si chiudevano di sopra in una stanza, e l’Emilia che serviva il caffè ci diceva che il sor Matteo sapeva già i conti a memoria e si ricordava di un carretto, di un cestino, di una giornata dell’anno prima perduta.(cap. XV)
Se il sor Matteo è il modello sociale di Anguilla, le sue due figlie maggiori sono il mito sentimentale. Agli occhi di Anguilla sono due giovani principesse, irraggiungibili nel ricordo che ha di loro: giovani, hanno vent’anni; belle, una bionda, Irene, e l’altra bruna; suonano il piano; tengono in giardino fiori che poi aggiustano nei vasi, come in chiesa.
Quando passavano col parasole, io dalla vigna le guardavo come si guarda due pesche troppo alte sul ramo. (cap. XVIII)
Eppure già dai giorni della Mora qualche dubbio capace di incrinare il mito, Anguilla comincia ad averlo. Si rende conto che Irene vorrebbe essere invitata al Nido, la villa di una contessa di Genova e Irene aspira a sposarne il nipote. Ma la contessa si oppone e Irene non può nulla, può solo piangere con sua sorella.
Si capisce che la voglia di andarsene dalla Mora, di entrare in quel parco sotto i platani, di trovarsi con le nuore e i nipoti della contessa, le faceva addirittura ammattire. Era come per me vedere i falò sulla collina di Cassinasco o sentir fischiare il treno di notte. (cap. XXII)
Irene piange sulla sua storia col contino, e non lo sposerà mai; sposa invece Arturo che non solo dilapida il suo patrimonio, ma la maltratta anche. Silvia si rovina via via la reputazione, e la vita, con Matteo di Crevalcuore e la sua motocicletta prima, e con un uomo d’affari di Milano dopo; muore in conseguenza di un aborto clandestino. Sono due ragazze incapaci di capire la realtà delle cose, e, prive di difesa, sono esposte ai colpi della sorte. Del resto le loro letture sono i romanzi rosa, che nella forma dell’editoria moderna, inventano mondo irreale come quello che la sera in Gaminella la Virgilia raccontava ai bambini. E Anguilla pensa che ha ragione Nuto, quando osserva che in tutti noi scorre lo stesso sangue, che tutti sognano l’amore e la ricchezza.
Nuto non parla volentieri della Mora, perché la brutta morte di Santina ancora lo turba e lo addolora. Ma alla fine è lui a raccontare la tragedia che si abbatte sulla più giovane delle figlie del sor Matteo. Una brutta storia di guerra, di lotta partigiana, di guerra civile. Santa era andata a vivere a Canelli , faceva la maestra e frequentava la Casa del Fascio. Poi nel settembre ’43 anche per lei le cose si erano messe male. Aveva cercato Nuto perché voleva andarsene da Canelli. Nuto, proprio lui, l’aveva messa in contatto con Baracca che era poi morto alle Ca’ Nere. Faceva la spia per le Brigate Nere o per i partigiani? Dopo i rastrellamenti di giugno, la cattura di molti combattenti, la banda partigiana del luogo le attribuisce la responsabilità dell’accaduto, l’accusa di essere una spia, la processa e la condanna a morte. L’ultima immagine del racconto, e la sua ultima parola, è il falò. Il falò, che nel ricordo di Anguilla è qualcosa di buono che sveglia gli umori della terra, diventa ora segno di morte, e di morte violenta.
Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla cosí. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò.
fonti
Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino, 1950
prossimo appuntamento: sabato 28 maggio
Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale
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