La pietra racconta

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Da Lerici a Turbia. Scorribanda tra pietre e sassi della poesia italiana

La pietra racconta. Questa conferenza si è svolta il 25 agosto 2022 a Mergozzo, un bellissimo paese nei pressi di Verbania, nella sala dell’Antica Latteria nell’ambito de “I giovedì del Museo e dell’Ecomuseo del granito“.

La conferenza di Ferdinanda Cremascoli per italianacontemporanea.org è stata accompagnata da Rossano Munaretto con i suoi flauti di pietra, tra cui il flauto di Pan, in marmo rosa di Candoglia, realizzato dai maestri artigiani Lino e Nicolao Rossini.

Sintesi in una clip 18′


La pietra racconta

È una sera estiva 
di questo inquieto 
duemilaventidue.
Come tutte le sere, è una sera
che ben presto nel nulla svanirà. 
Tanto è umana. Anche troppo umana!

L’opposto delle pietre:
resistenti e immobili e durevoli.
Così silenziose … finché un umano 
le fa loquaci, e allora si dipana
Il filo lungo di un lungo commercio.

Materia inerte, i sassi assurgono 
a metafora dell“altro” dall’umano: 
inorganico contro organico, 
statico contro mutevole, 
rigido contro duttile, …

Così in questa sera estiva, presto
svanita, andremo a zonzo,
vagabonderemo un po’ qua e là 
tra alcuni bei versi italiani,
scegliendo in modo del tutto personale,
le pietre e i sassi tra i più incantevoli.


All’inizio, Dante

Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.

«Da Lerici a Turbia», è la metà di un verso della Divina Commedia. Dante e Virgilio hanno appena cominciato a salire la montagna del purgatorio. Il sentiero sale dentro una spaccatura della roccia così stretta e ripida che bisogna arrampicarsi, aiutandosi anche con le mani. Per descrivere questo paesaggio occorre paragonarlo ad un paesaggio di cui il lettore può avere esperienza: ecco allora il raffronto con la costa ligure, tra Lerici e La Turbie, che sta sopra Montecarlo. Come dire che su tutta la costa ligure, da levante a ponente, la più solitaria e la più rotta rovina (notate l’anafora «la più diserta/ la più rotta ruina», e l’allitterazione in”r”) è una scala «agevole e aperta» rispetto alla roccia da superare ora.

Dunque i versi di Dante già mettono in luce la caratteristica più peculiare dei sassi: l’asprezza, l’impervietà, in definitiva la durezza con cui gli esseri umani si confrontano. Tanto sono rigide le pietre, persistenti e immobili, tanto sono antitetiche alle qualità umane di malleabilità, di fugacità, e soprattutto di industriosità.

Eugenio Montale. Scabro ed essenziale

I primi versi che citiamo sono di Eugenio Montale. Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale è una lirica di Ossi di seppia. È il settimo movimento della sezione Mediterraneo. Questi sono i primi nove versi. 

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.

Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace – uomo che tarda
all'atto, che nessuno, poi, distrugge.

I ciottoli che l’acqua consuma evocano un’opposizione tra il mondo naturale e  il mondo umano, I ciottoli sono  l’inorganico, fuori dal tempo, segno di una vita che non è umana. La seconda strofa inizia proprio con «Altro fui: uomo intento che riguarda». Un bellissimo endecasillabo che si apre con l’aggettivo “altro”. A sottolineare ancor più questo senso di “alterità” è l’eccentricità della cesura. La cesura di questo endecasillabo cade dopo “intento”, mentre la pausa sintattica si colloca dopo “Altro fui:”. L’eccentricità della cesura rispetto alla frase sintattica evidenzia l’idea di  uomo  come “altro” rispetto al mondo dei sassi. Si afferma qui il senso di una estraneità, di una disarmonia, di una lacerazione che divide dai “ciottoli” il mondo degli uomini. 

Giacomo Leopardi. I nudi sassi dello scabro appennino

Anche questi versi di Leopardi contrappongono la nudità dei sassi alla vita di un ristoratore e «lieto giardino».

Come da’ nudi sassi
dello scabro Apennino
a un campo verde che lontan sorrida
volge gli occhi bramoso il pellegrino;
tal io dal secco ed aspro
mondano conversar vogliosamente,
quasi in lieto giardino, a te ritorno,
e ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

Sono i versi 29-36 de Il pensiero dominante una liriche dei Canti. Il “tu”, cui il poeta si rivolge, è il pensiero che i primi sei versi definiscono così: «dolcissimo possente/ dominator di mia profonda mente / terribile, ma caro /dono del ciel, consorte / ai lugubri miei giorni, / pensier che innanzi a me sì spesso torni.»

I versi 29-36 sono una lunga similitudine che connette i «nudi sassi / dello scabro Apennino» al «secco ed aspro / mondano conversar», alle chiacchiere sociali, insomma. L’insistenza sul suono sibilante crea il legame di comparazione: “sassi”, “scabro”, “secco”, “aspro”, “conversar”.

Il secondo membro della comparazione si crea tra «un campo verde che lontan sorrida» e il «lieto giardino» che ristora i sensi, tale è il pensiero cui l’io lirico ritorna.

Un aggettivo emerge da questi versi di Leopardi, e Montale, che abbiamo ricordato: “scabro”. “Scabro” significa “ruvido”, ruvido al tatto e, per estensione, “brullo”, nei versi di Leopardi è detto “nudo”, e per estensione ancora nei versi di Montale, “essenziale”, cioè “ridotto al minimo”. I sassi sono ciò che di più lontano è dal turbinio e dalla rigogliosità della vita. Sono “l’altro da noi”. 

Lungi dal tenerli lontano però, questa alterità affascina gli umani, che sognano di prenderne il controllo di poterla volgere a proprio beneficio, magari con la magia, o magari grazie alla scienza e alla tecnologia.

Ludovico Ariosto. La pietra magica

Ci sono due racconti nel Rinascimento italiano nati alla corte estense. Sono Orlando innamorato e Orlando furioso, rispettivamente di Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto. Il secondo, dice Ariosto, è una «gionta» del primo: un sequel, insomma! Raccontano entrambi una vicenda di pura finzione: mentre Parigi è assediata dai Mori, i valorosi cavalieri di Carlomagno e del saraceno Agramante, invece di fare la guerra, inseguono, cioè molestano, una giovane bellissima principessa, Angelica, giunta dal lontano Catai con alcuni oggetti fatati. Tra questi c’è un anello, che rende invisibile chi se lo mette in bocca.

Sicuramente il dono dell’invisibilità dipende da una pietra: l’elitropia! Né Matteo Maria Boiardo, né Ludovico Ariosto dicono che l’anello di Angelica porta una pietra, né che questa pietra sia l’elitropia, ma siccome i lapidari medievali sono molto chiari in proposito, è nostra opinione che l’anello di Angelica sia ornato dall’elitropia, la pietra che tra le sue proprietà ha anche quella di rendere invisibili! L’elitropia è una  varietà di calcedonio, una pietra fibrosa di quarzo, bianco-azzurrognola se è pura, o variamente colorata se è impura.

È una fortuna per Angelica possedere questo anello, perché i cavalieri, da cui deve guardarsi, la inseguono senza tregua. Ma proprio perché l’anello ha queste proprietà magiche, c’è chi glielo ruba e poi è derubato a sua volta, sicché in tutta la storia questo anello passa di mano in mano, finché in una circostanza assai pericolosa, Angelica ne torna in possesso.

I pirati di un’isola dell’estremo nord, l’isola di Ebuda, hanno catturato Angelica. La incatenano, nuda, ad uno scoglio, quale sacrificio ad un’orca mostruosa. Un cavaliere, Ruggero, si trova a passare di lì in groppa ad un cavallo alato. Vede la fanciulla nuda e subito pensa di farla sua. Fortuna che si fa viva l’orca! Ruggero ha con sé l’anello fatato che ha avuto da Bradamante che lo ha rubato a Brunello che … su, su… di furto in furto … fino ad arrivare alla sua legittima proprietaria, Angelica stessa. Impegnato contro l’orca, che sconfigge grazie allo scudo fatato del mago Atlante, Ruggero vuole mettere al sicuro l’anello ed ecco che lo infila al dito di Angelica.

Or che sel vede, come ho detto, in mano,
sì di stupore e d'allegrezza è piena,
che quasi dubbia di sognarsi invano,
agli occhi, alla man sua dà fede a pena.
Del dito se lo leva, e a mano a mano
sel chiude in bocca: e in men che non balena,
così dagli occhi di Ruggier si cela,
come fa il sol quando la nube il vela.

L’anello di Angelica è nel racconto del Furioso il “MacGuffin” di Hitchcock: un oggetto di per sé irrilevante, tanto che spesso scompare dalla storia, ma che costituisce il motore della storia stessa. Impadronirsi della dote magica di Angelica (e di Angelica, naturalmente!) è la prima causa di tutta la tessitura della trama.

L’ esistenza dell’anello magico di Angelica rivela un lungo percorso umano di confronto scontro con la “pietra”, cioè con la materia, è il sogno di dominarla o almeno di volgerla a proprio vantaggio attraverso attraverso la magia, ma anche attraverso l’ars, la techne dei Greci, cioè il lavoro umano.

La pietra si fa dunque oggetto dell’attenzione umana, ne stimola l’industriosità, che trasforma anche i sassi.

Pierpaolo Pasolini. Il pianto della scavatrice

A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori - accompagnata

dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confine

dell'orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere... È la città,
sprofondata in un chiarore di festa,

- è il mondo. Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch'è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch'è spento dolore.

Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante

di ferirci:…

Sono i versi 31-52 della sesta parte de Il pianto della scavatrice. La scavatrice è strumento di lavoro degli scalpellini, che trasformano il mondo degli oggetti inanimati, il mondo non-umano. Gli scalpellini e la scavatrice mutano radicalmente ciò che era «area erbosa, aperto spiazzo», «quasi una vecchia fiera», e lo fanno diventare «fresco / sterro sconvolto». Nei versi di Pasolini ogni trasformazione è causa di sofferenza («la luce del futuro non cessa un solo istante / di ferirci»), perché ogni mutamento, anche quando produce risultati buoni, implica una rinuncia a ciò che comunque “era”, esisteva.

L’ineluttabilità del mutamento e insieme il dolore che porta con sé si esprime attraverso il metro scelto da Pasolini: la terzina a rima concatenata. Il metro della Scavatrice dunque cita Dante, ma verso e strofa sono forzati in modo così estremo, che Dante non esiste più, e non può esistere più.

È lo sforzo novecentesco di togliere alla poesia italiana il peso degli anni. La grande, secolare tradizione della poesia lirica italiana costituisce un “thesaurus”, un vero e proprio tesoro, una ricchezza, ma anche un pesante fardello.

Nel XX secolo il mondo cambia rapidamente, la trasformazione della nostra vita è passata attraverso straordinarie conquiste intellettuali, invenzioni, tecnologie,… e attraverso due guerre mondiali. Come può la poesia italiana continuare ad esprimersi secondo la sua tradizione?

È il peso della tradizione che Pasolini combatte strenuamente. Ne sono testimoni questi versi: la terzina di endecasillabi a rima concatenata è citazione dantesca, ma nel lungo poema della scavatrice (quelli che abbiamo visto sono una ventina di versi sui 425 dell’intero testo), il poeta mette in campo ogni sua risorsa per ripulire i suoi versi dall’eco solenne della poesia italiana.

Ecco allora la strofa che stride in continue spezzature del suo ritmo sintattico, a cominciare dai «mattutini/sudori», dove l’aggettivo è separato dal suo nome o «nel breve confine⁄dell’orizzonte», dove il sostantivo sta in un verso e la sua specificazione addirittura nella strofa successiva, e così via.

Ecco allora il verso che deforma la propria natura di endecasillabo. La prima terzina citata è composta da due settenari e un endecasillabo che si riconosce appena. Le rime non sono certo quelle dantesche. Sono le rime, per così dire, atonali della poesia moderna:

straziata/accompagnata
mattutini/scalpellini/confine
fresco/novecentesco/festa
città/ha/si fa
era/cera/fiera
rancore/sole/dolore
brulicante/anche/istante

L’esito della ricerca di Pasolini è certo un tono rotto, frammentato, spigoloso alla lettura. Una delle più consapevoli sperimentazioni espressive e stilistiche del Novecento.

Italo calvino. L’arco E LE PIETRE

Per concludere, ecco un breve fulminante racconto di Italo Calvino, il maestro della leggerezza e della velocità. Calvino è un prosatore, è vero. E questo brano è in prosa. Ma è sintetico quanto lo può una poesia. E la poesia contemporanea, come abbiamo visto, cerca nuove forme del dire, cerca uno stile adatto al ventunesimo secolo.

Questo brevissimo racconto parla delle pietre che cambiano sottoposte all’intelligenza del lavoro umano. Il lavoro umano è ars, è techne. È l’intelligenza umana, che esiste, e che coesiste insieme con la nostra stupidità. A questi esseri umani intelligenti e stupidi insieme la poesia si rivolge. E parla qui della loro operosità che fa interagire materia e intelligenza. Il frutto non è necessariamente dolore: è qualcosa che ha a che fare con la bellezza!

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.
– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.

Il prossimo appuntamento con la letteratura è per sabato 24 settembre. Di Nuovo qui! su DeltaScienceTutoring

Fonti

Alighieri, Dante, Purgatorio, III, 49-51

Ariosto, Ludovico, Orlando Furioso, XI, 6

Calvino, Italo, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972

Leopardi, Giacomo, Canti, Starita, Napoli, 1835

Montale, Eugenio, Ossi di Seppia, Gobetti, Torino, 1925

Pasolini, Pierpaolo, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 1975

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