Il digitale favoloso. Parte prima

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Il digitale favoloso. Videoscrittura, multimedialità, posta elettronica, reti, prima FidoNet, poi il web sono stati gli strumenti digitali che mi hanno consentito di fare della mia aula una bottega di apprendimento, una bottega di educazione delle abilità linguistiche. Una bottega favolosa.

È una storia che comincia da lontano, a metà degli anni Settanta del secolo scorso e che ho narrato in un eBook, Il mestiere della scuola. Mentre ancora studiavo Università (nei primi anno Settanta), cominciai a lavorare come insegnante supplente di italiano in scuole molto diverse tra loro. Un liceo scientifico privato, diverse scuole medie inferiori, un istituto tecnico commerciale, uno diurno e uno serale, un liceo scientifico e un classico, un istituto magistrale.

Il digitale favoloso
La classe del XXI secolo come la bottega del Verrocchio, dove tutti imparano, che siano i rarissimi Leonardo o i comunissimi Salaino.

Il percorso seguito all’Università non contemplava (lo contempla oggi? ne dubito) una formazione al mestiere di insegnante, sicché fu inevitabile pensare ai miei insegnanti come bussola per orientarmi in situazioni tanto nuove e diverse. Ma avvertii subito che quel modello non aveva nessuna possibilità di essere riprodotto negli ambienti in cui ero capitata.

Appena laureata in Lettere Classiche con una tesi in “Storia della Filosofia Antica” sul concetto di techne nel pensiero presocratico (ebbi 110 sotto la presidenza del prof. Lodovico Geymonat) ebbi un incarico annuale in un istituto professionale frequentato quasi esclusivamente da ragazze. Le mie alunne non erano padrone della nostra lingua, ne praticavano un solo registro, orale, informale, e anche un po’ sboccato. Buio completo sui registri scritti. Nessuna consapevolezza dell’esistenza di registri diversi nell’italiano e in qualsiasi altra lingua. E difatti le più andavano male anche in inglese.

Non riuscivo a mettermi in sintonia con queste mie alunne, poco più giovani di me, ma abitanti di un altro mondo, dove era ignota qualsiasi letteratura, dove erano difficili anche i fumetti, dove scrivere era un evento da evitare.

Chi sono le mie alunne

Per questo cominciai a interessarmi ai problemi dell’identità di queste alunne, che in parte era anche la mia, perché anch’io, per quanto classicamente educata, ero allieva di quella Scuola Media Unica istituita da una riforma significativa nei primi anni Sessanta, la sola vera riforma nel lasso di tempo in cui si è svolta la mia vicenda personale e professionale. Il suo nucleo forte è l’idea che la scuola deve dare a tutti, proprio a tutti, una preparazione di base comune. La scuola dell’obbligo fu così estesa dai cinque agli otto anni, che divennero poi dieci.

La scuola media, inferiore e superiore, si apriva a strati studenteschi mai visti prima nella scuola. Al liceo questi nuovi alunni chiedevano conto delle finalità della scuola, discutevano i contenuti delle discipline, criticavano la fissità di una didattica fondata sul modello “io parlo, voi ascoltate”, contestavano i criteri della valutazione.

Oggi so che noi insegnanti affrontammo un cambiamento epocale, e a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, facemmo esperienze importanti e positive. Avrebbero dovuto essere raccolte in un nuovo canone e in una nuova articolazione della scuola media inferiore e superiore, che invece non fu mai riformata compiutamente, nonostante le “riforme”, interventi pasticciati ed estemporanei che generarono la confusione in cui oggi versa la scuola.

Eppure quelli furono anni di esperienze formidabili, mai fatte prima. La scuola media, inferiore e superiore, di massa ci mise di fronte ad allievi non italiani madrelingua. Non perché stranieri, ma perché, diceva Tullio De Mauro con la sua équipe di ricercatori, la metà degli Italiani non era ancora di madrelingua italiana. E non stiamo parlando solo del Sud: le mie esperienze personali sono lombarde e il fenomeno era visibile. 

Nuovi contenuti, metodologie nuove

Nel crogiolo dove si fondevano insieme le questioni più diverse, si delineava anche una nuova visione di cosa fosse l’insegnamento di “italiano”. Occorreva  lasciare la via vecchia per una nuova.

La via vecchia era quella dell’insegnamento di italiano, come insegnamento della letteratura, fondato sul canone, peraltro glorioso, di autori ed opere selezionato in età risorgimentale ed integrato con le rivisitazioni dei successivi settanta, ottant’anni, ma sostanzialmente inalterato pur nella diversità dei paradigmi interpretativi (crociani, marxisti, strutturalisti, psicanalisti…): ecco perché I promessi sposi, in Terza Media.

La via nuova si disegnava sempre più nitida: era la strada dell’ampia gamma di testi, scritti e detti e letti e ascoltati. Scopo: costruire una vera competenza linguistica, propedeutica a tutto, a tutto quel che si studia in uno specifico ordine e grado di scuola, a tutto ciò che serve nella vita sociale.

Una visione che maturò nell’incontro e nel confronto delle nostre esperienze, grazie alle associazioni professionali di insegnanti. Ricordo il Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica, il cui motto è “Educazione linguistica democratica”), il Lend (Lingua e Nuova Didattica) e il Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti). 

Emergeva allora, ed è sempre di attualità, che lo scopo di un buon corso di italiano nella scuola di base (elementare, media inferiore, biennio superiore, dai sei ai sedici anni) è quello di educare Italiani, anche se di origine straniera, padroni della propria lingua in tutti i suoi aspetti, testuali e pragmatici, a diversi livelli di complessità.

Se faccio, imparo

Non solo nuovi contenuti. Cambiai radicalmente il mio modo di stare in classe. La lezione frontale fu ridimensionata in modo fortissimo. In classe si fanno lavorare gli studenti. In classe sono loro a fare la lezione, esponendo la parte di lavoro che è stata loro assegnata. La lezione dell’insegnante deve fornir loro spiegazioni e indicazioni, chiare accurate sintetiche, affinché possano eseguire ed esporre la parte loro affidata. Se l’insegnante definisce che cosa sia un diario di viaggio, quali siano le sue caratteristiche testuali, l’alunno dovrà produrre un testo che rispetti quelle caratteristiche. Se l’insegnante illustra le peculiarità di un componimento poetico italiano, sarà l’alunno a costruire un’analisi del testo poetico oggetto di studio in quel momento.

Lo scopo fu sempre  quello di dare a tutti la possibilità di una vera preparazione di base. L’idea del successo scolastico, l’attenzione a tutti gli alunni è strettamente connessa allo spirito democratico, che costituì l’imprinting del mio essere insegnante. 

La classe capovolta

Se il compito dell’insegnante è principalmente quello di far lavorare gli alunni, occorre coinvolgerli attivamente. Dunque meno lezioni frontali e più attività autonome. Questa metodologia oggi si chiama “Classe capovolta”.

Per educare al meglio le abilità linguistiche di ognuno, l’insegnante di italiano ha necessità di creare le situazioni comunicative più diverse. Non basta la situazione scolastica del tema o dell’interrogazione. Intendiamoci: tema e interrogazione sono due situazioni comunicative reali, ma non sono le sole e non è sensato replicarle sempre uguali. Occorre creare situazioni comunicative diverse per varietà e difficoltà. Ma come?

Gli strumenti digitali mi offrirono una risposta. Fu grazie a loro che l’aula in cui facevo lezione si trasformò in una bottega, una bottega favolosa, come la bottega del Verrocchio, dove tutti lavorano e imparano, che siano i rarissimi Leonardo o i comunissimi Salaino.

Il primo strumento digitale che usai e feci usare fu il wordprocessor. Il digitale favoloso numero 1!

Per imparare a padroneggiare i registri scritti occorre scrivere. Frequentemente. E nelle situazioni più diverse. Se il rapporto degli studenti con la scrittura è lo sporadico compito in classe, nessuno imparerà davvero a scrivere. D’altra parte l’insegnante necessita di strumenti ragionevolmente usabili per poter gestire il suo ruolo di maestro di bottega. Fu così che incoraggiai l’uso didattico del word processori dei cui benefici vi ho già parlato, in questa rubrica.

Prima della LIM, la mia lavagna digitale

Per potenziare l’ascolto cominciai intanto a sperimentare l’uso delle tecnologie informatiche in classe mentre facevo lezione. Fine anni Ottanta: proposi al Consiglio di Istituto di allestire una postazione di lavoro per il docente con un computer, una lavagna luminosa, un data-display a cristalli liquidi in modo da dotarlo di una lavagna elettronica, quando non erano ancora in uso le LIM.

La lavagna digitale permette al docente di spiegare, mostrando alcuni oggetti: i concetti fondamentali del suo discorso, ad esempio; o carte geografiche, immagini di quadri, monumenti, etc. Fu così che cominciai a servirmi di software ipertestuale. Un ipertesto consente all’insegnante di memorizzare tutto il materiale didattico che serve alla spiegazione, e non solo materiale scritto, ma anche grafico, o addirittura delle immagini, dei suoni. 

La lavagna digitale serve anche agli alunni. Cos’è un’interrogazione se non un’esposizione pubblica su un argomento conosciuto, sul quale si è accettabilmente preparati? Così, mentre si è interrogati, si può mostrare la scaletta o la mappa che illustra i punti salienti del discorso. Questa tecnica è utile a chi parla, perché gli dà sicurezza, e a chi ascolta, cioè alla classe, perché l’attenzione è controllata dalle immagini che aiutano a non distrarsi.

Su tutto questo digitale favoloso scrissi un saggio per Laterza con Mara Gualdoni. S’intitolava La Lavagna elettronica. Guida all’insegnamento multimediale.

Prima dei social, la mia posta elettronica su FidoNet

Ma il word processor e il far lezione con una lavagna digitale non bastavano. Gli alunni hanno bisogno di occasioni reali in cui è la situazione stessa a chiedere certe prestazioni, in cui è naturale scrivere una recensione, è naturale leggere un avviso, è naturale ascoltare un discorso con attenzione, prendendo appunti, e così via. E allora? Allora furono sempre le nuove tecnologie, il digitale favoloso, a venirmi in aiuto!

Genesis BBS

La sorte aveva in serbo per me una sorpresa. Incontrai sulla mia strada Marco Carrubba, “sysop” cioè “admin” (misterioso e affascinante questo mondo nuovo con il suo lessico nuovo!) di un nodo FidoNet, Genesis BBS. Ecco qui il biglietto da visita che Marco creò per me.

Genesis BBS era un Bullettin Board System, nodo 2:331/327 della rete FidoNet. Bullettin Board System si traduce con una parole sola: “bacheca”, cioè la vetrinetta appesa al muro, dove una volta, a scuola, si esponevano gli avvisi. Per sineddoche, il contenente per il contenuto, la vetrinetta vale per il materiale che vi è fissato.

Qui il digitale si fa veramente favoloso!

I servizi di FidoNet

Vi dirò solo poche cose su FidoNet , connesse alla mia attività di insegnante. Se volete saperne di più vi consiglio di visitare il sito di FidoNet e di leggere la voce FidoNet su Wikipedia.

I principali servizi di un BBS FidoNet erano la posta elettronica e la distribuzione di files (programmi e documentazioni). La posta elettronica permetteva, allora come oggi, la distribuzione di messaggi da un mittente ad un solo destinatario, o la gestione di messaggi tra un mittente e più destinatari.

Si creavano, allora come oggi, aree di discussione su specifici argomenti: ad esempio, “politica”, “scuola”, “università”, “cinema”, “Macintosh”,… Ampi gruppi di persone, sovente specialisti, discutevano di argomenti di comune interesse e condividevano tra loro la posta, che diventava così veicolo di conoscenza: si risolvevano problemi e si davano consigli.

Anche i programmi ed i documenti erano messi a disposizione della rete. Ogni iscritto al BBS vi poteva accedere per prelevare od inserire programmi non coperti da copyright. Questa del copyright fu la causa della rovina di FidoNet in Italia nel 1994.

Se volete saperne di più sulla distruzione della rete FidoNet in Italia nel 1994 visitate il sito di ESTATE , libertà di Espressione, di STAmpa e TElematica.

Al BBS ci si collegava con un modem attraverso la linea telefonica, e questo costituiva il costo d’esercizio di quest’attività. Ci si collegava con del software, spesso di pubblico dominio, che consentiva di preparare tutta la propria corrispondenza sul proprio computer . Poi si andava in rete per spedire i messaggi e per ricevere quelli in arrivo; per prelevare il catalogo dei files disponibili, consultarlo tranquillamente fuori linea e collegarsi poi a colpo sicuro, riducendo così notevolmente il tempo e quindi il costo della telefonata.

La posta elettronica prima occasione di lavoro in rete

Genesis BBS mi fece entrare nel mondo della posta elettronica che cominciai a frequentare assiduamente per il mio piacere personale. Senza Marco Carrubba sarei entrata in questo mondo solo più tardi. Queste mie vicende datano alla fine degli anni Ottanta e inizi Novanta. Internet non era ancora raggiungibile per un utente come me, fuori dall’università e da ogni grande azienda informatica.

Proposi ai miei alunni dapprima l’uso della posta elettronica non lontano dallo stile “amici di penna”: si individuano alunni di un’altra scuola, magari stranieri per poter esercitare la lingua, e ci si scrive uno a uno. È un sistema piacevole ma, con carta e penna, molto lento. Con la posta elettronica è veloce e divertente. La posta elettronica fu un aiuto significativo per creare situazioni reali di comunicazione. Ma si può fare di più. Se si coltiva l’idea di lavorare insieme ad un progetto comune, la posta elettronica diventa uno strumento di collaborazione. Fu quello che facemmo nel mio liceo.

Attraverso vicende che non sto a raccontarvi conoscemmo un gruppo di studenti americani dell’Università di Salt Lake City. Il loro insegnante di italiano stava cercando una classe italiana con cui mcorrispondere. Accettammo prontamente.

Per qualche mese la posta elettronica fu per i miei alunni un’occasione per chiacchierare in libertà, per scherzare, per conoscere gente nuova Proprio questi aspetti di gioco, propri di un mezzo di comunicazione agile e affascinante per la sua novità, furono lo stimolo potente che coinvolse i miei alunni.

Sull’esperienza che vivemmo, scrissi un articolo per CHIP, pubblicato nel n.11 del dicembre 1994. A Scuola con internet era il titolo.

Qui a lato, la copertina del numero di dicembre di CHIP e la prima pagina dell’articolo.

I nostri interlocutori americani non erano principianti della nostra lingua, s’esprimevano anzi in modo accettabile. Ma facevano anche molti errori. Sicché messaggio dopo messaggio i miei alunni corressero e spiegarono le ragioni di ogni correzione. E un’idea si delineò sempre più nitida nella nostra mente: perché non raccogliere il materiale in una grammatica generale della nostra lingua, consultabile per via telematica ? Scrivemmo a più mani un indice, inserimmo in qualche paragrafo il materiale già prodotto, ma la nostra collaborazione terminò per ragioni varie prima che il lavoro fosse finito. Della grammatica restò l’articolo che scrissi, e l’indice e poco altro, ma l’intera vicenda ci dimostrò cosa avremmo potuto fare in futuro con strumenti migliori. In una bottega non tutti i lavori riescono sempre. Ma si impara molto dagli errori!

Nella prossima puntata

Il digitale favoloso – parte seconda del 24 febbraio 2024 vi racconterà la storia di quel che abbiamo poi fatto sulla rete internet e di quel che si può fare oggi con i potenti strumenti arricchiti dall’intelligenza artificiale che abbiamo a disposizione. Non mancate!


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